Il COVID 19 negli USA

Il servizio fornito dall’ospedale di Elmhurst, un quartiere del distretto del Queens, a New York, è valutato dai suoi utenti con due misere stelle su Google. Scorrendo tra le recensioni, le più frequenti lamentele riguardano i tempi di attesa nel pronto soccorso, la pulizia delle strutture, la difficoltà di prendere appuntamento con i medici. Questo in tempi normali. Ma Elmhurst, al momento, non sta vivendo tempi normali e il suo servizio sembra essere ulteriormente compromesso. Insieme al confinante quartiere di Corona, sempre nel Queens, la zona più ad est di Elmhurst è stata definita “l’epicentro dell’epicentro” dell’epidemia di Covid 19 negli Stati Uniti, che è, ancora oggi, lo Stato di New York. La sola città di New York, le cui immagini deserte girano su diversi siti internet, conta più di 72 mila casi su un totale di più di 140 mila in tutto lo Stato e circa 400 mila in tutti gli Stati Uniti, dove il numero dei morti è vicino ai 13 mila (aggiornamento al 7 aprile).

Stando ai dati più recenti (che, come abbiamo ormai imparato anche qui da noi, restano sempre incompleti e invecchiano in fretta) i distretti della Grande mela più colpiti dal virus sono quelli con il più alto numero di minoranze etniche e reddito più basso, soprattutto Queens e Bronx, seguiti da alcune zone di Brooklyn e Staten Island. Le ragioni non sono del tutto chiare ma si possono immaginare. In generale, si tratta di quartieri più popolosi, dove è difficile isolarsi; in secondo luogo, le minoranze etniche e gli strati sociali più deboli hanno normalmente meno accesso alle cure mediche e sono perciò più esposte ad avere patologie pregresse malcurate, che abbiamo capito essere tra i fattori che rendono il virus manifesto e più violento; infine, spesso i lavoratori a basso reddito operano in quei settori che non hanno interrotto le loro attività (come quelli alimentare e delle consegne), continuano a prendere i mezzi pubblici per spostarsi sul luogo di lavoro e non è difficile immaginare che, anche in presenza di sintomi, non usufruiscano di congedi per malattia perché non hanno la garanzia di poter mantenere il salario.

Era il 7 marzo quando il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo, dichiarava lo stato di emergenza, garantendo in questo modo un più facile accesso a fondi federali e aumentando la presenza di personale specializzato nel fronteggiare la crisi sanitaria. I casi confermati, allora, erano pochissimi rispetto ad oggi. A fine marzo, il Governo federale ha approvato lo stanziamento di fondi per allargare il programma sanitario Medicaid a patto che non se ne modificassero gli stanziamenti a livello statale. Cuomo, che nel frattempo si è conquistato un ruolo di leadership sempre più definito (al contrario del Sindaco di New York, Bill De Blasio, che sta si è conquistato più che altro quello di capro espiatorio di tutto ciò che non va- o poteva essere fatto meglio) è stato allora protagonista di una polemica che ha svelato le contraddizioni del suo operato. Favorevole ai programmi di austerità, il Governatore democratico si è dichiarato disposto a rinunciare ad un’ingente somma contenuta nelle misure nazionali pur di non tornare indietro sui tagli già approvati, rivelando le ambiguità di un politico che non ha davvero affrontato le crescenti disuguaglianze del suo Stato e, anzi, ha contribuito ad aumentarle. Nei suoi frequenti, pressoché quotidiani, aggiornamenti televisivi sulla situazione, Cuomo dà il quadro della situazione, esprime cordoglio per le numerose morti, racconta come ha intenzione di combattere la claustrofobia da isolamento (ricomincerà a fare jogging) e insiste su un punto: l’emergenza che vive il suo Stato non sarà un caso unico nel Paese. Come affrontarla è, perciò, una questione nazionale. Nell’ultimo dei suoi messaggi video ha sottolineato a più riprese come intende redistribuire il peso dell’epidemia sui diversi ospedali del territorio che governa, alcuni dei quali lamentano l’assenza di materiale per la protezione dei medici e degli infermieri e un numero di ingressi eccessivo. Cuomo ha annunciato che i pazienti potranno essere trasportati in strutture diverse da quelle in cui si sono recati verso luoghi con maggiore capacità di accoglienza, e che la gestione del materiale ospedaliero avverrà a livello centrale. Lo stesso, a livello “macro”, dovrebbe avvenire per tutti gli Stati Uniti, pensa Cuomo, che ha affidato un monito in merito ad un tweet del 3 aprile: “Questo è un disastro nazionale. Gli Stati hanno bisogno di assistenza federale”. La polemica, rivolta all’amministrazione Trump, si è concentrata sulla distribuzione di ventilatori polmonari. Secondo Cuomo, quando il picco della diffusione del contagio arriverà, New York avrà bisogno di circa 35000 ventilatori. Per ora, il governo ne ha mandati 4000, la Cina 1000 e l’Oregon ne ha prestati 140, coprendo un fabbisogno nettamente inferiore alle aspettative.

Intanto, questa sarà una settimana decisiva per gli Stati Uniti: tutti coloro che stanno gestendo l’emergenza, compreso il Presidente, hanno annunciato che i numeri dei contagi e delle morti aumenteranno in modo vertiginoso. La mattina di martedì 7 aprile, ora italiana, hanno cominciato a girare notizie circa la possibilità che a New York si organizzino delle sepolture temporanee presso i parchi pubblici, lanciata in un tweet del responsabile della Commissione sanità del City Council di New York, Andrew Levine e smentita subito dopo da De Blasio. Il Sindaco ha tentato di rassicurare i cittadini e aggiunto che se ci si dovesse trovare nell’eventualità di non avere abbastanza spazio nei cimiteri si utilizzerebbero strutture come la Hart Island, un lembo di terra ad ovest del Bronx che è già un enorme cimitero gestito dal Department of Correction, che ha in carico i centri di detenzione.

In questo caos, il Congresso sembra convergere su un nuovo pacchetto di misure a sostegno delle imprese e delle persone dopo quello da duemila miliardi del mese scorso. Ma il livello dello scontro politico tra repubblicani e democratici resta alto, come ci dimostra la vicenda del Wisconsin degli ultimi giorni. Lunedì sera, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha votato in favore di un’istanza presentata dai repubblicani dello Stato (che hanno la maggioranza nel Congresso del Wisconsin) contro la decisione del Governatore democratico, Tony Evers. Il caso in questione riguardava quando tenere le primarie per le presidenziali che sono state già rimandate o riorganizzate con il voto via posta da 15 Stati a causa dell’epidemia, e l’elezione di un giudice della Corte suprema dello Stato. In Wisconsin se ne discute da inizio marzo ma la situazione è degenerata quando Evers ha scelto autonomamente dal Congresso, e con un estremo ritardo, di rimandare le primarie più avanti e di garantire il voto via posta, anche perché un buon numero di persone coinvolte nei seggi elettorali (spesso si tratta di anziani) ha dichiarato, negli ultimi giorni, di non voler svolgere il servizio per paura del contagio. Si è aperta così una querelle con i repubblicani che è arrivata fino alla Corte suprema federale e che rivela quanto profonda sia la polarizzazione politica degli Stati Uniti (e non solo). I giudici del massimo organo della giustizia americana hanno votato secondo la propria appartenenza politica con un risultato di 5 a 4 in favore dei repubblicani e il 7 aprile i cittadini del Wisconsin si sono recati alle urne di persona. Un modo, per i repubblicani, per scongiurare il pericolo che il voto via posta favorisse una partecipazione più ampia al voto da parte di chi normalmente non esce di casa per recarsi al saggio, spesso minoranze etniche e strati sociali più disagiati che votano democratico. Per evitare anche, in questo modo, che si crei un precedente per il voto negli altri Stati e, in ultima istanza, per quello delle presidenziali di novembre. Un piccolo assaggio di quanto la pandemia stia incidendo sul processo elettorale, che dipenderà anche da quanto durerà l’emergenza, di cui ad oggi gli Stati Uniti non vedono nemmeno il piccolo spiraglio di luce che hanno davanti alcuni Paesi europei.

Alice Ciulla

Università degli Studi Roma Tre 

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