Kamala Harris e le due anime dell’America

20 August 2020

La scelta di Kamala Harris come runningmate di Joe Biden nel ticket democratico per le presidenziali del 2020 riveste un’importanza particolare nella storia politica e culturale degli Stati Uniti. Innanzitutto, Biden aveva già fatto una scelta strategica importante nel decidere che la sua candidata vice sarebbe stata una donna proprio nell’anno del centenario del 19° emendamento alla costituzione che riconosceva il voto alle donne. In più Kamala Harris rappresenta una summa di quanto di più sostanziale è contenuto nei valori della fondazione della repubblica: figlia di immigrati, esempio di capacità di integrazione e assorbimento dei principi portanti della nazione, come quello di affermarsi per i suoi meriti e la competenza nonostante le difficoltà incontrate sul percorso. Una donna impegnata a livello pubblico e privato che incarna le aspirazioni di molte americane e americani, quella parte di Stati Uniti che non riesce a riconoscersi in Trump e nelle sue politiche aggressive, esclusiviste ed eccezionaliste. Proprio qui sta uno dei punti dirimenti della scelta di Joe Biden, una decisione ponderata, raggiunta attraverso un lungo procedimento di selezione: opporre all’immagine dell’America che Trump ha fornito sia nella sua campagna elettorale del 2016 sia durante il suo mandato, quella di un paese dinamico, giovane, proiettato ancora nel futuro nonostante il peso di decenni di leadership a livello mondiale. Da una parte l’America di Harris, capace di ripensarsi e proporsi secondo schemi e valori in continuo rinnovamento, dall’altra una superpotenza oltraggiata, indebolita proprio dalle caratteristiche che la contraddistinguono, immigrazione in testa, che vuole tornare a una primazia a livello internazionale rimanendo però ripiegata su se stessa. 

C’è qualcosa che a noi europei spesso sfugge della realtà degli Stati Uniti, ovvero che le tante anime e identità di cui sono composti si possono riassumere in due atteggiamenti principali che caratterizzano anche la politica del paese sia a livello nazionale che globale, entrambi puntano a dare forza e solidità alla nazione, al suo tessuto sociale e alle sue forme politiche, così come vogliono affermare una leadership americana a livello globale; solo che lo fanno in due modi diversi tra loro. Uno si può definire assertivo, promotore della grandezza ed eccezionalità del paese, l’altro è invece dialogante, internazionalista, inteso ad affermare la forza della repubblica per i suoi meriti, perché è portatrice di valori condivisibili, se non universali. Nel corso dei più di duecento anni della loro storia, gli Stati uniti hanno visto prevalere ora uno ora l’altro di questi approcci, ma sempre nel rispetto dei valori costituzionali e dei principi fondanti della repubblica. 

Anche queste elezioni vedranno di fronte le due anime portanti della nazione; quale prevarrà saranno gli elettori a deciderlo ma una cosa è certa: per la prima volta nella storia del paese c’è un elemento nuovo che potrebbe fare una grande differenza. È una donna che riassume in sé molti dei principi e delle aspirazioni del popolo americano. Una donna che può aiutare il paese a superare il rischio di una guerra di trincea tra due candidati un po’ superati non solo e non tanto per la veneranda età di entrambi, ma perché fanno appello a due anime dell’America che appartengono più al XIX secolo che al mondo attuale, che si portano dietro ancora un’idea comunque eccezionalista degli Stati Uniti. 

Kamala Harris oltre a essere una possibile futura candidata alla presidenza, tanto per la sua età quanto per il suo approccio riformatore e al tempo stesso istituzionale, è la migliore interprete di una società in continua evoluzione. Più di tutti gli altri protagonisti di questa peculiare campagna elettorale 2020 all’ombra della pandemia, è l’espressione stessa della globalizzazione e del complesso processo del multiculturalismo negli Stati Uniti. Per riutilizzare un concetto elaborato giusto un secolo fa e oggi tornato alla ribalta: Harris è la migliore espressione di un’America transnazionale, e ha l’esperienza politica e sociale per intrepretarla. 

Daniele Fiorentino, Professore di Storia degli Stati Uniti, Università degli Studi Roma Tre e membro del Board del Centro Studi Americani

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