Sessant’anni di Centro Studi Americani

27 November 2023

Intervento di Daniele Fiorentino, 16 novembre 2023

Se il 1963 è senza dubbio un anno di grandi trasformazioni e di svolte che hanno lasciato un segno nella politica internazionale e nello specifico nelle relazioni tra Stati Uniti e Italia, il periodo tra inizio giugno e i primi di luglio di quell’anno ne è un concentrato. Il giorno dopo la festa della repubblica muore Giovanni XXIII, mentre il 1° luglio arriva in Italia il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy che incontra il nuovo papa, Paolo VI il quale è salito al soglio pontificio il 21, e quello stesso giorno si costituisce finalmente, dopo tante incertezze, il nuovo governo Leone. Sono coincidenze, ma sono di quelle coincidenze che aiutano lo storico a ricostruire i processi di azione e reazione e di concatenamento nei processi di trasformazione politica, economica e sociale che costituiscono il contesto stesso della trama di ricostruzione storica.
Il 1963 infatti, è anche l’anno della marcia su Washington per i diritti civili, e del primo governo di centro-sinistra in Italia. È finita una prima fase della guerra fredda e se ne sta per aprire un’altra. Per dirla con le periodizzazioni più comuni usate dagli storici siamo in quello stretto crinale di tensione (la crisi dei missili a Cuba è del 1962) che collega il disgelo con la détente. L’Italia è saldamente nella sfera atlantica, ma è anche il paese della NATO con il più grande partito comunista e con un partito socialista che aspira a diventare partito di governo.
In questo milieu si costituisce ufficialmente il Centro Studi Americani, sempre a giugno di quell’anno anche se il decreto è di ottobre. Esso rappresenta un ottimo esempio di due aspetti delle relazioni transatlantiche e in particolare di quelle tra Italia e Stati Uniti nel corso del Novecento: da una parte, sulla base della tradizione che lo precede, la Library for American Studies, l’Associazione italo-americana, il Consiglio Italiano di Studi Americani, e anche quel Centro italiano di Studi Americani voluto dallo stesso Mussolini e da Galeazzo Ciano a condizione che ampliasse i suoi orizzonti a tutto il continente americano, è un centro di ricerca e documentazione sugli Stati Uniti d’America. Dall’altra è un ottimo strumento da affiancare alla politica, a partire dai primi passi mossi da questo istituto che sono un prodotto quasi diretto della Prima guerra mondiale.

Sia l’originale Library voluta da Harry Nelson Gay, laureatosi a Harvard e stabilitosi a Roma nel 1899 ancora molto giovane, che l’Unione Italo-Americana e il Comitato Economico Italo-Americano, le due organizzazioni fondate nel 1918 a Torino dal prof. Francesco Ruffini, senatore del regno e dal senatore e poi ministro dell’agricoltura Dante Ferraris, si formarono mentre finiva la tragica esperienza della guerra totale che aveva visto Italia e Stati Uniti esitare e poi entrare nel conflitto sullo stesso fronte. Da una parte uno studioso americano affascinato dall’Italia, dall’altra due intellettuali e uomini politici interessati ad approfondire la conoscenza degli Stati Uniti e della loro cultura. Come scrive Emanuele Del Francesco nella sua originale e informata tesi di specializzazione, “Sguardi americani: l’archivio del Centro Studi Americani a Roma”, nel 1919 l’Unione Italo-Americana di Francesco Ruffini e il Comitato Economico Italo-Americano decisero di fondersi in un’unica entità, che poi divenne l’Associazione Italo Americana, AIA. La nuova organizzazione stabilì la sua sede a Roma nel Palazzo Salviati, dove avrebbe ospitato anche la Library for American Studies.
Questo attivismo e crescente attenzione di studiosi e politici italiani verso gli Stati Uniti era generato da due fattori propulsivi tra loro complementari. Il primo era la tradizionale simpatia e collaborazione tra i due paesi che risaliva a prima che l’Italia venisse unificata e si costituisse in Regno e gli Stati Uniti superassero il difficile passaggio della Guerra civile e della Ricostruzione. Il secondo era un portato della guerra e dell’immigrazione. La presenza crescente di italiani negli Stati Uniti e l’alleanza nella Prima guerra mondiale, prima che la conferenza di Versailles sollevasse una certa dose di diffidenza tra i due paesi, contribuirono ad alzare l’attenzione reciproca tra i due paesi.
Durante il conflitto, e soprattutto quando Wilson si risolse per la dichiarazione di guerra alla Germania nel 1917, Gay sentì crescere la necessità di stabilire un centro che consentisse agli italiani di familiarizzare con la cultura americana. Ancor prima che l’Italia entrasse in guerra, l’intellettuale americano aveva sostenuto con l’interventismo e poi lo sforzo bellico italiano con una serie di iniziative non solo culturali. Aveva infatti partecipato alla organizzazione delle infrastrutture della croce rossa americana in Italia. Aveva anche avuto l’occasione di tenersi in contatto con le poets’ ambulances (iniziativa umanitaria con risvolti eroici per alcuni scrittori d’oltreatlantico che Ernest Hemingway ci ha fatto conoscere attraverso uno dei suo capolavori: Addio alle armi) sul fronte nord-orientale grazie al suo ruolo nella Keats-Shelley Society di cui fu

segretario. Gay fu in prima linea tra quegli americani che si aspettavano dal loro governo una maggiore attenzione e sensibilità per gli alleati italiani. Cercò peraltro di fare pressioni direttamente su Wilson, insieme all’allora ambasciatore USA a Roma Thomas Nelson Page, per un giusto riconoscimento delle rivendicazioni italiane durante la conferenza di Versailles. Nella sua collezione, prima a Palazzo Orsini e poi a Palazzo Brancaccio, Gay aveva raccolto oltre a opere sugli Stati Uniti anche una raccolta di storia del Risorgimento italiano degna di nota. Collezione che volle poi a Harvard d’accordo con il suo mentore, lo storico dell’Italia William Roscoe Thayer. Anzi, per assicurare quella collezione alla sua alma mater poco prima della morte prematura, e per timore di vedersi bloccato dal regime da cui aveva cominciato a prendere le distanze dopo un’iniziale simpatia, Gay aveva spedito per corriere diplomatico e sotto falso nome quasi tutti i libri. In una corrispondenza con il direttore delle biblioteche di Harvard, Alfred Claghorn Potter, si assicurò poi che questi li sistemasse in un’unica collezione. Furono destinati alla principale biblioteca dell’università, la Widener Library, dove sono tuttora conservati. Si tratta della più grande collezione sul Risorgimento italiano negli Stati Uniti.
Prima di tornare alla creazione del moderno CSA, quello che siamo qui a celebrare, non si può non sottolineare due aspetti importanti delle vicende che portarono il Centro ad assumere la conformazione attuale. Esso infatti ha radici sia nell’antifascismo che nel fascismo e fu promosso inizialmente da simpatizzanti americani del partito democratico mentre l’AIA era nato in gemellaggio con un’associazione repubblicana statunitense. I fondatori delle due associazioni che diedero vita all’AIA, Ruffini e Ferraris, condannarono il fascismo. Ruffini fu uno dei pochissimi docenti italiani che si rifiutò di giurare fedeltà al regime. Anche in Senato, così come sulle colonne del Corriere della Sera, egli portò avanti la sua battaglia in difesa della libertà e divenne il punto di riferimento, come ha scritto Arturo Carlo Jemolo, di “tutto l’antifascismo intellettuale torinese, di giovani e vecchi”. Ma il fascismo inevitabilmente segnò in modo deciso la nascita del Centro. Innanzitutto, nel 1927 Ruffini rassegnava le dimissioni dall’AIA per essere sostituito da Emilio Bodrero, studioso di storia della filosofia che aveva subito abbracciato il fascismo. Poi venne la creazione, ancora a Torino, nel 1934 del Centro Italiano di Studi Americani per iniziativa di Pietro Gorgolini. A differenza degli altri istituti, tutti dedicati all’approfondimento della conoscenza degli Stati Uniti, il CISA proponeva un approccio più ampio, dedicato a tutti i paesi e i popoli delle Americhe, nord e sud. Per volere dello stesso Mussolini, il CISA venne trasferito presto a Roma e assorbì a sua volta la biblioteca di Gay per gli studi americani.

La Library for American Studies diventava così proprietà del Centro Italiano di Studi Americani. Forte di una collaborazione ormai assicurata, anche per volere del regime, Il CISA chiese comunque all’AIA di tenere presso di sé la Biblioteca fino alla fine di agosto del 1936, così da avere il tempo per organizzare il trasferimento e in attesa dello spostamento del Centro presso Palazzo Antici-Mattei, che avvenne il 1° ottobre 1936; Volpi di Misurata, allora presidente dell’AIA, acconsentì alla richiesta di Gorgolini, rendendosi disponibile anche a prolungare la permanenza della Library a Palazzo Salviati.
Le difficoltà della nuova situazione internazionale e l’ostilità tra Italia e Stati Uniti portarono a un progressivo rallentamento delle attività sia dell’AIA sia del CISA, con quest’ultimo che assumeva intanto un ruolo nella propaganda antiamericana, fornendo informazioni utili e documentazione che diffamassero il nemico. A partire dal 1942, la situazione si era fatta talmente complessa da costringere l’AIA a proporre uno scioglimento dell’associazione che in realtà non avvenne mai giuridicamente e il CISA a interrompere le sue attività. L’ultimo atto del Regime fascista relativo al Centro Italiano di Studi Americani fu la nomina del Cda avvenuta nel febbraio del 1943, quando Alberto Asquini, che aveva scalzato Gorgolini, venne confermato come Presidente. Da quel momento, di fatto, il CISA smise di operare.
Alla fine della guerra rimanevano sostanzialmente in vita, seppur precaria, il CISA e l’AIA che vennero entrambe commissariate e trattate come se fossero praticamente un’unica organizzazione. L’AIA pagava un contributo al CISA e si trasferiva nel Palazzo Antici Mattei conservando la gestione della Library for American Studies. Da questo punto di vista si rivelò fondamentale l’accordo raggiunto con la Rockfeller Foundation, che nel 1950-1951 riconobbe all’Associazione un finanziamento di 5.000 dollari per l’acquisto di libri e riviste; grazie a questo contributo l’AIA poté curare l’aggiornamento dei periodici della Biblioteca, che era rimasto indietro a causa della guerra. Ovviamente, la gestione e l’aggiornamento della biblioteca continuò durante tutti gli anni Cinquanta, ma facendo affidamento sui fondi dell’Associazione stessa. Quello della Rockfeller era stato infatti un contributo una tantum. Intanto in questo scenario si inseriva anche la neonata Commissione Fulbright per gli scambi culturali tra Stati Uniti e Italia che l’AIA contribuì a sostenere a partire dall’inizio delle sue operazioni nella seconda metà degli anni quaranta.

Va inoltre sottolineato che dal 1949 l’Associazione Italo Americana aveva partecipato alla costituzione del Consiglio per gli Studi Americani, in collaborazione con l’Università di Roma La Sapienza, l’Ufficio Culturale dell’Ambasciata degli Stati Uniti in Italia e la Commissione americana per gli scambi culturali con l’Italia (ACCEI); a partire dal 1953 entrò nel Consiglio anche lo United States Information Service (USIS). Nella sua nuova veste, consolidata con la rifondazione del 1963, e con la sua costituzione in ente morale, il Centro come era stato rinominato, cominciò così a rappresentare un’ottima arma nell’arsenale di soft power che gli USA allestivano in giro per il mondo attraverso le diverse branche dell’USIA (ovvero gli uffici USIS). Esse a loro volta avevano biblioteche aperte al pubblico e offrivano uno spaccato diverso degli Stati Uniti a coloro che fossero interessati a conoscere meglio una cultura che ormai stava emergendo come competitiva con quella europea e ben presto sarebbe diventata globale. Quando a fine anni settanta l’USIS chiuse la sua biblioteca di Roma donò la collezione al Centro Studi Americani.
Il CSA però aveva finanziamenti indipendenti e per buona parte continuò a vivere grazie ai proventi della scuola di lingua e ai contributi del Ministero per gli Affari Esteri, diventando così quel locus transnazionale tra Stati Uniti e Italia che rappresentava una sorta di strumento della guerra fredda culturale combattuta in quegli anni tra le due grandi potenze a margine della ben più minacciosa competizione sugli armamenti. Soprattutto con la corsa al potenziamento degli arsenali nucleari nella cosiddetta MAD (Mutual Assured Destruction) termine coniato anch’esso nel 1963 dal segretario alla difesa americano Robert McNamara. Il Centro diventava così al tempo stesso un porto franco di dialogo con il partner statunitense, che a partire dagli anni settanta affiancherà per oltre un decennio il ministero degli esteri nel finanziare l’istituto, e un luogo in cui approfondire la conoscenza della cultura americana nei suoi più diversi aspetti.
Quello che però caratterizza in modo molto significativo il nuovo Centro sono i seminari che si tengono solitamente tra aprile, maggio e giugno e che vedono la partecipazione sistematica di docenti americani che affiancano i colleghi italiani in quelle che sono vere e proprie Summer Schools ante litteram. Partite già dagli anni cinquanta con il seminario di letteratura americana, alcune di esse duravano anche un mese e offrivano a molti studenti italiani la prima occasione di seguire corsi “all’americana”, insegnati da veri professori americani in diversi campi del sapere, tra diritto internazionale, economia e sociologia. A essi si affiancavano convegni internazionali di alto profilo come quelli degli anni settanta su Potere politico e amministrazione nella società post-

industriale e sul Piano Marshall e l’Europa. La nuova veste giuridica del CSA accompagnava un suo riposizionamento a livello tanto scientifico che politico. Come per le istituzioni che gli avevano dato i natali, il CSA diventò un importante attore della scena culturale degli anni della Guerra fredda.
CSA, AIA, poi incorporata dal primo a inizio XXI secolo, e Commissione Fulbright, le organizzazioni e associazioni culturali cioè che si occupavano dei rapporti transatlantici e in particolare di quelli tra Stati Uniti e Italia negli anni cinquanta e sessanta furono animate dall’impegno di un significativo numero di studiosi e soprattutto studiose che si dedicarono a risistemare la biblioteca e a svilupparla. Costoro promossero attraverso convegni e seminari lo studio della letteratura e della storia americane, selezionarono giovani studiose e studiosi per le borse di studio Fulbright che nel corso dei successivi decenni avrebbero conseguito master e dottorati nelle migliori università americane per poi andare a occupare posti chiave in Italia, e non solo nel mondo della cultura: come nel caso dei tre Nobel Tullio Regge, Carlo Rubbia, e Riccardo Giacconi. Tra i borsisti vi erano anche Giuliano Amato e Lamberto Dini, Antonio e Sabino Cassese, Umberto Eco, e molto più modestamente chi vi parla.
Alcuni degli americanisti lavorarono anche direttamente nel Palazzo Antici Mattei dove oltre a potenziare ulteriormente la biblioteca coordinavano i seminari annuali di storia e letteratura di cui l’attuale Seminario interdisciplinare è l’erede. In questo gruppo non si può non ricordare Biancamaria Tedeschini Lalli, prima Rettora donna nell’accademia italiana e studiosa di letteratura che fondò anche il Dipartimento di Studi Americani presso La Sapienza insieme ad altri americanisti italiani; Cipriana Scelba, direttrice per quarant’anni della commissione Fulbright e poi presidente del Centro Studi Americani; Alessandra Pinto Surdi, a lungo capo bibliotecaria del Centro, e ovviamente Guglielmo Negri, Consigliere di stato, docente di diritto pubblico. A Harvard dove studiò tra il 1951 e il 1952, sempre grazie a una borsa Fulbright, Negri frequentò Gaetano Salvemini, che aveva già conosciuto a Firenze, e Henry Kissinger, che in quell’università dirigeva il seminario di politica internazionale. Incontrò anche John Fitzgerald Kennedy, allora candidato al Senato per il Massachusetts, interessato a saperne di più sulla situazione politica italiana. Intanto nel 1973 nasceva anche la Associazione Italiana di Studi Nord-Americani (AISNA) animata tra gli altri da alcuni dei promotori del Centro Studi Americani, e che all’inizio del nuovo secolo avrebbe spostato il suo domicilio a Palazzo Antici Mattei.

A coordinare questi fermenti negli anni sessanta e settanta due presidenti, personaggi pubblici di primo piano nella politica e nella diplomazia italiana: Alberto Tarchiani, figura centrale nelle relazioni italo-americane durante e dopo la guerra, che aveva lasciato l’Italia a causa del fascismo per poi diventare il primo ambasciatore negli USA dopo la fine della Seconda guerra mondiale, per ben dieci anni tra il 1945 e il 1955. Fu lui a presiedere il CSA nella sua rifondazione del 1963. Dopo di lui tra il 1964 e il 1973, Leonardo Vitetti, un diplomatico di alto rango ma con un curriculum ben diverso. Aveva servito anche a Washington come segretario di ambasciata per il governo fascista. Si può dire che quella gestione rappresenta una sorta di raccordo tra le tante storie e trame che si intersecano dentro e intorno al Centro Studi Americani. D’altronde la presidenza Vitetti avviene proprio in quel delicato periodo di transizione della Guerra fredda, tra disgelo e détente, illustrato all’inizio di questa breve relazione. Da allora una certa continuità ha informato le attività del Centro fino alla fine della Guerra fredda che impose un deciso cambio di passo e di orientamento dell’istituzione. Ed è qui che si ferma lo storico e subentra il testimone diretto degli eventi. Nel 1995 venni chiamato infatti a dirigere il Centro sotto la presidenza di Cipriana Scelba con la quale ripensammo la missione e l’organizzazione dell’istituto avviandolo sulla strada che percorriamo adesso. Auguri al Centro Studi Americani dunque, e a tutti noi.

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