COVID-19 E UNIVERSITA’ NEGLI USA
Gli Stati Uniti sono ancora nel mezzo dell’epidemia di COVID-19. Secondo gli ultimi dati, nel Paese sono state contagiate circa 1 milione e trecentomila persone e il numero dei morti ha superato gli 80,000. La distribuzione dei casi non è omogenea sul territorio ma la stragrande maggioranza degli Stati ha avviato qualche forma di allentamento delle restrizioni del lockdown. Uno degli argomenti di cui si discute è quello della possibile riapertura dei luoghi di istruzione di ogni grado, dalla scuola primaria all’università. Per ora gli edifici di quest’ultima restano chiusi, ad esclusione di qualche dormitorio rimasto aperto per consentire il soggiorno a chi non avesse altro luogo dove stare, le summer school e i test d’ingresso sono sospesi e le cerimonie di laurea si svolgono via internet.
I dottorandi di varie istituzioni, che spesso ricevono stipendi troppo bassi per coprire corsi di interi semestri, erano già in mobilitazione prima dello scoppio della pandemia. Ora, le loro istanze si sono arricchite di nuovi temi, tra cui la richiesta di sospendere i pagamenti degli affitti agli studenti internazionali rimasti bloccati negli Stati Uniti senza borsa di studio, che spesso viene erogata su un arco di nove mesi e non un anno intero.
La didattica, tuttavia, prosegue. Con l’inizio del lockdown, i professori si sono riorganizzati velocemente per spostare le lezioni online praticamente ovunque, adottando una soluzione temporanea definita Emergency Remote Learning (ERL), che, come sottolinea uno studio firmato da diversi esperti, è qualcosa di diverso rispetto all’apprendimento digitale vero e proprio. La diffusione di corsi di studio via internet è un fenomeno che esisteva già da prima dello scoppio della pandemia, e non solo negli Stati Uniti. I corsi digitali che ampliano l’offerta formativa di alcune università o sono erogati da quelle telematiche hanno, però, una loro organizzazione e un loro target, diverso da quello del sistema universitario “classico” basato sulla didattica in classe, le attività extracurriculari, le confraternite, i dormitori, la vita del campus che siamo abituati ad immaginare oltreoceano. Come notano alcuni docenti, del resto, l’effetto della pandemia finora non è stato quello di creare nuovi corsi digitali, che prevedono inevitabilmente metodi diversi e una lunga preparazione, ma semplicemente di spostare le lezioni frontali sulla piattaforma Zoom, in fretta e furia e come meglio si è potuto. La conseguenza, rilevano alcuni sondaggi, è che il 75 per cento degli studenti universitari si dichiara insoddisfatto della qualità dell’istruzione ricevuta, a causa della difficoltà di seguire le lezioni con la stessa concentrazione che si ha in un’aula fisica, di interagire con i docenti e con i colleghi, di avviare dibattiti. Generalmente, tra l’altro, i voti ottenuti degli esami di chiusura dei corsi online sono più bassi e questo genera qualche preoccupazione negli studenti oltre che diverse proposte di rimodulare la valutazione, anche se al momento attuale sembra esserci la tendenza ad evitare giudizi negativi o bocciature quasi ovunque, data la situazione straordinaria.
In diverse università degli Stati Uniti, nelle ultime settimane gli studenti hanno cominciato a chiedere il rimborso delle rette, sostenendo che la didattica online non è il servizio per cui hanno pagato (in alcuni casi cifre esorbitanti, se si considera che il costo di un anno di istruzione superiore, tra tasse e pagamenti individuali, si aggira in media sui 30,000 dollari ). Al di là di qualche caso isolato (come quello della City University of New York, che ha stabilito un fondo d’emergenza per distribuire soldi agli studenti che hanno maggiori necessità) e della misura governativa che dilaziona i prestiti federali e abbassa allo 0% dei tassi di interesse per sei mesi valida per alcune categorie, tuttavia, che le università restituiscano l’intera cifra non sembra essere un orizzonte possibile. Per ora, in diversi casi agli studenti sono state rimborsate le spese per gli alloggi e gli altri servizi forniti dai campus, una voce limitata dell’ammontare dell’iscrizione.
Nel complesso sistema universitario statunitense, che conta università private, pubbliche, for-profit e non-profit, le rette restano una fonte di sostentamento importante degli istituti. Per quanto riguarda le università pubbliche, circa il 23 per cento del budget arriva dai pagamenti degli iscritti mentre il resto è il combinato di finanziamenti privati, fondi federali e, soprattutto, fondi statali. Nel settore privato i numeri cambiano: le rette costituiscono circa il 34 per cento del bilancio complessivo, il resto è fatto perlopiù di finanziamenti e donazioni privati. È difficile, oggi, prevedere quale sarà il reale impatto della crisi economica dovuta alla diffusione del COVID-19 sull’università ma è possibile che, a fronte di un aumento della disoccupazione, diminuiscano gli incassi della tassazione e le università pubbliche ne risentano. È possibile anche che le donazioni di fondazioni filantropiche si riducano o si spostino su altri settori o ancora che il numero delle iscrizioni crolli a causa dell’incertezza del futuro e della minore disponibilità economica delle famiglie. Sono tutte ipotesi che al momento non trovano né conferme né smentite. Nel frattempo, il pacchetto di misure da duemila miliardi approvato a marzo dal Congresso statunitense ha destinato circa 30 miliardi all’istruzione, di cui 14 ai college e alle università a fronte dei 50 richiesti. Negli ultimi giorni il Department of Education ha messo in piedi altre misure di sostegno, erogando fondi per circa 1,4 miliardi di dollari da destinare ai college frequentati da minoranze etniche e ulteriori 350 milioni rispetto a quelli stanziati dal Congresso per garantire che tutte le strutture ricevano almeno 500,000 dollari di aiuti. Fondi poco pubblicizzati, per i quali sembra abbiano fatto richiesta solo un ristretto numero di college privati.
Il problema della riapertura delle università, in ogni caso, non deriva direttamente dalla disponibilità di una o dell’altra voce del bilancio. È una questione molto più complessa, che ha a che fare con il ruolo e l’accessibilità dell’istruzione secondaria negli Stati Uniti. Vale la pena riportare uno scambio a distanza tra Christina Paxton, economista e presidente della Brown University, una delle più elitarie degli Stati Uniti, Graeme Wood, giornalista e lecturer a Yale, e Corey Robin, politologo, docente al Brooklyn College e al Graduate Center della City University of New York (CUNY), la più grande università pubblica del Paese. Per Paxton la riapertura delle università deve essere in cima alla lista delle priorità, ovviamente nel rispetto della sicurezza delle persone, garantita dalla diffusione dei test, di meccanismi di tracciamento e distanziamento. Difficile immaginare il distanziamento nei dormitori, nelle mense, negli stadi, nelle palestre ma, per Wood, il tracciamento potrebbe partire dall’uso delle carte magnetiche di accesso ai locali dell’università che tutti gli studenti hanno a disposizione. Si tratta di proposte, per la verità deboli e parziali, che potrebbero essere efficaci per la Brown e per Yale ma meno per la CUNY, dove, scrive Robin, non solo non esistono tessere magnetiche ma a volte manca persino il sapone nei bagni. È un piccolo esempio del fatto che il mondo universitario statunitense è diverso da come viene dipinto se si prendono in considerazione esclusivamente quelle università d’élite, ricchissime e costosissime che sono nel nostro immaginario. Secondo una rilevazione del 2018, solo il 13 per cento degli studenti del primo anno risiede nei dormitori. La stragrande maggioranza vive a casa con la famiglia d’origine e frequenta l’università più vicina. Circa il 40 per cento ha più di 25 anni e il 26 per cento ha dei figli. Poco meno del 40 per cento è iscritta a programmi part-time, più compatibili con gli orari lavorativi che scandiscono la giornata di più del 50 per cento degli studenti. È lo specchio di una società che cambia, in cui un numero sempre crescente di persone figlie di genitori senza istruzione secondaria si iscrive all’università e ottiene un titolo (spesso terminando un percorso universitario di due anni).
C’è un altro dato da tenere in considerazione. Il 2017 ha segnato l’anno in cui i contributi individuali per il pagamento delle rette nei college statali hanno superato la cifra raccolta dalle tasse dei contribuenti. Poiché bisogna pianificare la riapertura delle università, varrebbe forse la pena farlo tenendo a mente il quadro reale della situazione e immaginare una programmazione articolata, complessa e il più possibile universale che allo stesso tempo non getti alle ortiche quanto messo in piedi per avviare la didattica online d’emergenza. Uno strumento che potrebbe tornare utile in futuro e, se pensato adeguatamente, potrebbe affiancare, e non sostituire, lo svolgimento delle lezioni in aula.
Alice Ciulla
Università di Roma Tre