Gilead di Marylinne Robinson
Ieri sera ti ho detto che forse un giorno me ne andrò, e tu mi hai detto: – Dove? – E io: – A stare con il Buon Dio -. E tu: – Perché? – E io: – Perché sono vecchio -. E tu mi hai detto: – Secondo me non sei vecchio -. Hai infilato la tua mano nella mia e hai detto: – Non sei tanto vecchio, – quasi che questo sistemasse la questione.
Gilead di Marylinne Robinson si apre sulla prospettiva di un’assenza eterna. Il reverendo John Ames, nato e cresciuto nella città che dà il nome al romanzo, si mette a scrivere una lunga lettera al figlio. La ragione che si cela dietro a questa lunga omelia paterna non sembra essere chiara nemmeno al narratore protagonista di questa storia apparentemente priva di spirito. Che nasca dal proprio senso di essere padre, dalla consapevolezza di essere giunto alla porta d’uscita della propria vita o per lasciare un messaggio spirituale per il proprio bambino, John Ames inizia a raccontare la sua vita e a lasciare un’eredità.
La lunga lettera di Ames prende quasi subito le sembianze di una tenera confessione quasi imbarazzata di una vita vissuta senza delle vere passioni oltre a quella religiosa. Il rapporto con la fede è privato, profondo e molto chiaro per il reverendo, un punto fermo nella sua vita tanto quanto quello che lo lega alla sua giovane moglie. Lunghe riflessioni sui sermoni scritti e recitati in chiesa prendono pagine e pagine. Si sviluppa, così, un romanzo che non nasconde la religione come primo spunto per una riflessione sull’umano che, senza andare a sviscerare in profondità le anime tormentate di Gilead quasi mai menzionate, racconta una storia universale forse di più di quanto mostri.
La profonda fede e la vocazione religiosa in questo senso legano le vicende che riguardano la personale storia familiare del reverendo. Il nonno di Ames, reverendo anch’egli, viene dipinto con un certo imbarazzo, tipico secondo Robinson del rapporto che il Midwest americano ha con il proprio passato abolizionista. Ames senior è infatti una figura quasi mitica, un reverendo radicale la cui fede e un atteggiamento bizzarro lo guidano ogni giorno verso l’abolizione della schiavitù in Iowa e nel resto degli Stati Uniti. Un carattere esuberante che lo porta addirittura ad aprire i suoi sermoni con un colpo di pistola. La stessa arma che John Ames nipote decide prima di seppellire e poi di ridurre in cenere perché, forse, l’eredità di un passato familiare tanto concitato e pieno di vita lo anima di un’energia a lui sconosciuta.
Ma del resto questa vita possiede una leggiadria mortale tutta sua. E la memoria non è rigorosamente mortale per natura. In fondo è strano poter ritornare a un momento, quando praticamente non si può sostenere che abbia alcunché di reale, nemmeno nella sua fugacità. Sì, insomma, l’attimo è una cosa talmente impalpabile che il suo permanere è una proroga assai misericordiosa.
Quando nella vita del reverendo entra Jack Boughton, quella stessa scomoda energia torna a farsi sentire e a mettere temporaneamente in crisi Ames. Cosa sarà del suo ricordo quando morirà? La moglie si risposerà con un uomo che Ames non approva? O deve lasciarla libera di essere felice nonostante la sua assenza? Queste domande assillano Ames per l’intera seconda parte del romanzo, che prende vita in modo quasi impacciato, come se questa passione che anima il protagonista debba essere nascosta.
L’unica passione che si impone nel romanzo e che non manca di essere manifestata dal protagonista è quella nei confronti del figlio. Un amore che trascende il tempo lega le due figure, sebbene quella del figlio venga solo parzialmente dipinta e vista spesso con gli occhi di altre persone, che sia la madre o un compagno di giochi. In definitiva, il figlio di Ames rimane sullo sfondo ma diventa il motore del movimento che, seppur microscopico, anima quel tanto che basta il reverendo per concludere la sua lunga lettera sulle note della speranza.
Francesca Titolo