In libreria il romanzo “La destinazione” di Serena Penni
Firenze,9 feb. (askanews) – Carla, Paolo, Elisabeth: tre voci raccontano se stesse e una storia, personale e condivisa, nella quale si stratificano, con inesauribile generosità, punti di vista, interpretazioni, monologhi, confessioni. Ma c’è sempre qualcosa che sfugge, che scavalca le spiegazioni razionali e rassicuranti, che si muove sotto la superficie dei fatti, presenti e passati. Così ne “La destinazione” (Il ramo e la foglia edizioni) di Serena Penni, scrittrice e studiosa di letteratura, si compie fedelmente quanto annuncia nell’epigrafe la frase del filosofo Jose’ Ortega y Gasset: “Abbiamo solo la nostra storia ed essa neppure ci appartiene”.
I protagonisti del romanzo, il quarto della scrittrice, ripercorrono le proprie vite in un dialogo tanto con se stessi quanto con il “tu” a cui ciascuno dei tre si rivolge carico di amore e desiderio, come di rabbia e di disillusione. Ognuno svela, nel dipanarsi della storia, il proprio segreto fino ad allora custodito da un fortino di non-detti e di equivoci che l’amore o la pretesa di amore non è riuscita a conquistare. Forse senza nemmeno provarci perché Carla, Paolo ed Elisabeth parlano prima di tutto a se stessi, incatenati al proprio, personalissimo, dolore dal quale non riescono ad uscire.
Paolo, rammenta Carla, portava dentro di se’ la sua storia “come si custodisce un male oscuro che è nato con noi, che detestiamo eppure abbiamo anche imparato ad amare perché senza di esso non sapremmo più riconoscere noi stessi nella mischia, distinguerci dal resto del mondo”. Così quello che si potrebbe presentare come un triangolo amoroso, con tutti i malsicuri porti in cui approdano certi rapporti di coppia, è in realtà anche un’altra cosa, un’esplorazione delle proprie radici e quindi, necessariamente, un viaggio attorno al rapporto con chi ci ha generato.
Le pagine più dense del romanzo, infatti, ruotano intorno ai dualismi padre-figlio, madre-figlia e madre-figlio. E’ qui – ci viene suggerito – che ogni sciagura ha origine. “Ci univano strade segrete che si irradiavano nel sottosuolo della nostra esistenza, una vita iniziata in lui e proseguita in me, come una galleria scavata sotto il mare torbido dell’apparente normalità. Eravamo padre e figlio. Eravamo due assassini”, afferma Paolo. “Sono la terza di quattro sorelle e mia madre ci picchiava tutte, ogni giorno. da quando ho memoria fino alla mattina di novembre in cui me ne sono andata di casa”, gli fa eco, a distanza di pagine, Elisabeth.
Il loro incontrarsi e le loro decisioni (“Non ho mai voluto un figlio, l’ho sempre saputo. Nella mia vita ho avuto dubbi quasi su tutto e pochissime certezze, ma questa è una di quelle”, confessa Paolo parlando di Carla) non possono prescindere da rapporti familiari malati, contagiosi nella loro disfunzionalita’ o tutt’al più indifferenti. Rapporti primordiali che evolvono di pari passo con la storia – ecco che per Paolo il padre assume forme mutanti, eccelle nel mostruoso fino a sprofondare nell’insignificante – e che precipitano, nell’aria “densa e quasi palpabile per via dell’umidità”, in un finale del quale, ancora una volta, esistono tre versioni e tutte e tre non comunicanti.