La scoperta di Cosa Nostra – di Gabriele Santoro
«La scoperta di Cosa nostra» (Chiarelettere, 270 pagine) è la storia di un mafioso e di un politico: Joe Valachi, soldato nelle potenti famiglie di Cosa nostra a New York, e Robert Kennedy, che dalla fine degli anni Cinquanta al cuore dei Sessanta lavora alla realizzazione di una società più equa. Quando i loro destini si incrociano, l’America e il mondo scoprono l’esistenza di un’organizzazione criminale diffusa e articolata, sottostante a regole e codici precisi, che mina dall’interno l’economia intessendo relazioni con il potere.
Dopo trent’anni di militanza, Valachi, sentitosi tradito dal boss Vito Genovese, abbatte il muro dell’omertà: è lui il primo collaboratore di giustizia a fare il nome dell’associazione mafiosa. Il suo contributo rappresenta l’apice della svolta nella conoscenza e nel contrasto al crimine organizzato impressa da Kennedy, ministro della Giustizia dal 1961 al 1964 e creatore del primo pool antimafia.
Nel corso di questi quattro anni Kennedy rafforza e indirizza l’attività delle agenzie investigative, e coordina le indagini riunendo un gruppo di procuratori e inquirenti specializzati. Le sue intuizioni porranno le basi per la definizione in Italia del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Dando voce ai protagonisti, grazie all’esame di numerose fonti d’archivio statunitensi e alla raccolta di testimonianze dirette, questo libro ricostruisce in modo puntuale la storia di una strategia che ha rivoluzionato la percezione della mafia e indicato i metodi per contrastarla.
«Il caso Valachi rappresenta il più importante passo in avanti compiuto dall’intelligence nella lotta contro il crimine organizzato». Con queste parole nel novembre del 1963 Robert Francis Kennedy ribadiva agli americani l’importanza della collaborazione con la giustizia di Valachi.
Ronald Goldfarb, tra i giovani e talentuosi uomini di legge che il procuratore coinvolse nella rinnovata e rafforzata azione del dipartimento di Giustizia, ricorda quanto il riconoscimento e la definizione di cosa fosse esattamente la mafia, grazie al contributo decisivo delle rivelazioni di Valachi, fosse per lui un tema prioritario. Nel corso di una riunione, Kennedy pose una domanda ai suoi collaboratori: «Non possiamo rendere reato il fatto di essere un membro della mafia?».
Il quesito esprimeva una visione che in Italia sarebbe stata accolta dal legislatore solo vent’anni più tardi, all’apice degli attentati terroristici di matrice politico-mafiosa, con gli assassini di Pio La Torre e di Carlo Alberto dalla Chiesa.
RFK scriveva: «La posta in gioco è enorme. Milioni di americani pensano che la criminalità organizzata li riguardi solo vagamente o non li riguardi affatto. Il potere economico e il peso politico criminale sono cresciuti così rapidamente da danneggiare tutti, anche quando sembrano non interferire in modo diretto con la quotidianità. Questa battaglia non può essere vinta in una notte e, soprattutto, non può essere vinta senza la partecipazione di una cittadinanza informata, attiva e determinata a difendere le proprie libertà fondamentali».
Parole di quasi sessanta anni fa, ma attualissime.
Dai discorsi e dagli atti emergono senza mediazioni la visione e il lascito del suo metodo di contrasto alla criminalità organizzata, e di ciò che definiamo antimafia: una questione giudiziaria, economica, politica, sociale e culturale; un aspetto dell’impegno per il rinnovamento democratico della società.
articolo di Gabriele Santoro