Il cielo è dei violenti di Flannery O’Connor

Con la lettura di febbraio, il Bright Lights Bookclub si è fatto accogliere dalla scrittura di Flannery O’Connor e dalle pagine convolute e complicate di Il cielo è dei violenti. Da sempre interessata alla rappresentazione del cristianesimo americano di stampo puritano, O’Connor utilizza la religione per interrogare la natura umana e in questo romanzo tutti i personaggi, tra cui la fede stessa che diventa una muta protagonista, vengono messi a nudo da un’analisi attenta e tagliente.

Il romanzo si apre con il racconto che uscì per la prima volta nel 1955 sotto un altro nome. Viene inquadrato sin da subito l’orfano Francis Tarwater, allevato dal prozio, fanatico religioso ai limiti della pazzia e dell’ossessione, in campagna, lontano da tutto e tutti. Il giovane viene cresciuto con una sola missione da compiere: battezzare il figlio dello zio Ryber, un insegnante intellettuale la cui unica fede è la ragione, soprattutto quella atea. Alla morte del prozio, Tarwater si ritrova senza un vero punto di riferimento e guidato da una forza non del tutto identificabile, si reca da Ryber in città. Il distacco dai dogmi del prozio è difficile, a tratti surreale, soprattutto quando entra in gioco una terza voce che si oppone fermamente alle idee inculcate nella mente di Tarwater dal prozio ormai morto. E proprio Tarwater inizia a essere spinto apparentemente da due forze opposte, alle quali non solo non riesce mai del tutto ad affidarsi, ma che finisce per rifiutare in toto.

Il libro non interroga il rapporto dei personaggi con la fede e non rimane circoscritto a una sola possibile lettura. Che si inquadri da un punto di vista agnostico o religioso, il romanzo sembra gridare a gran voce una domanda: dove si trova la salvezza da sé stessi e dal proprio passato?

Tarwater compie un viaggio verso la libertà individuale inconsapevole, forse, di quello a cui sta andando incontro. Che questo avvenga attraverso il confronto e il rifiuto con lo zio e il prozio morto, o con l’incontro di persone terze che si approfittano della sua ingenuità, Tarwater sembra rimanere comunque vittima dell’ambiente circostante. Questa è forse la conferma del fatto che nemmeno il raggiungimento della propria libertà dalle ideologie e dai dogmi altrui sia ancora abbastanza. I gesti, soprattutto quelli violenti o addirittura omicidi incorniciano i goffi e inconsapevoli tentativi del giovane a emanciparsi da coloro che hanno segnato traumaticamente la sua breve esistenza.

Il romanzo si trasforma in un gioco malsano di possessione e modellamento del prossimo su di sé, compiuto soprattutto da Ryber e dal prozio di Tarwater che, sebbene ormai morto, esercita ancora la sua influenza sul ragazzo. In questo gioco di forze, di idee e stili di vita, dove può Tarwater trovare la propria libertà? Le due figure che orbitano nella vita di Tarwater falliscono nelle loro missioni di imporre da una parte e rifiutare la fede dall’altro: la scelta e il libero arbitrio vengono eliminati del tutto. Alla fine, il giovane finisce in qualche modo per emulare i metodi ossessivi e folli di entrambi i punti di riferimento che ha, proprio nei gesti violenti. Questi diventano così il suo unico linguaggio, l’unico possibile per esprimere sé stesso, come a suggerire che quelle due forze, forse, siano le uniche a spingerlo davvero.

Nel finale, l’immagine che per il gruppo di lettura riassume forse l’unico messaggio religioso autentico che O’Connor decide di far trapelare è un affamato e stanco Tarwater che si autoimpone la fame. L’oppressione è giunta al suo apice, da che era iniziata come un peso dall’esterno, ora diventa un fardello proveniente dall’interno del corpo del giovane protagonista.

 

Francesca Titolo – Le ore dentro ai libri

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