Kamala Harris: la forza delle donne di colore nel centenario della conquista del voto

di Elisabetta Vezzosi, Professoressa di Storia degli Stati Uniti d’America e Storia delle donne e di genere in età contemporanea all’Università di Trieste e membro del Board del CSA.

Nel suo discorso di accettazione della nomina a vice-presidente, nel corso della convention democratica, Kamala Harris ha esordito ricordando il centenario della ratifica del 19° emendamento che nel 1920 ha attribuito alle donne il voto negli Stati Uniti e le donne che si sono battute per questa conquista. Soprattutto ha messo in luce il ruolo delle donne nere che, sebbene non fossero presenti a quello che viene considerato il momento fondante del movimento suffragista statunitense – la Convenzione di Seneca Falls del 1848 -, e sebbene in gran parte non abbiano potuto esercitare il voto fino all’approvazione del Voting Act del 1965, si sono battute per i diritti civili, politici, sociali, umani:

“Without fanfare or recognition, they organized, testified, rallied, marched, and fought – not just for their vote, but for a seat at the table. These women and the generations that followed worked to make democracy and opportunity real in the lives of all of us who followed”.

Per tutto questo la nomina di Kamala Harris contiene una forte carica simbolica. È la prima donna di colore, di origini asiatiche, laureata in una università nera – la Howard University di Washington -, figlia di genitori immigrati (indiana la madre, giamaicano il padre), a far parte di un ticket presidenziale; una delle 4 donne (Geraldine Ferraro, Sarah Palin o Hillary Clinton) che si sono presentate sullo scenario elettorale presidenziale nell’intera storia statunitense.

Se, come scrive Martha Jones nel suo volume Vanguard. How Black Women Broke Barriers, Won the Vote, and Insisted on Equality for All, il 19° emendamento non eliminò i limiti posti al voto degli afroamericani – la poll tax o il literacy test -, rafforzò tuttavia la battaglia delle donne nere contro la segregazione e la discriminazione razziale. Una battaglia che riprese con forza negli anni Cinquanta, quando i grandi movimenti per i diritti civili negli stati del Sud le videro protagoniste, bridge leaders come ha scritto Belinda Robnett sottolineando il loro ruolo di “ponte” tra la leadership colta maschile e donne e uomini neri poveri e non istruiti: Rosa Parks, Ella Baker, Fannie lou Hammer Septima Poinsette Clark, Ella Baker, Diane Nash, Daisy Bates, Fannie Lou Hamer, Ruby Bridges, Claudette Colvin sono solo alcune delle donne impegnate nel movimento, spesso sconosciute. Ancora prima, nel 1893, indimenticabili furono gli interventi delle sei afroamericane ammesse a parlare nel corso del congresso dell’International Council of Women tenutosi in occasione della World’s Columbian Exposition di Chicago. Fu una di loro, Frances Ellen Watkins Harper, a proclamare “To-day we stand on the threshold of woman’s era”, lanciando un messaggio forte a tutte le donne del paese senza distinzione di razza ed etnia. Lo stesso fecero le altre – Anna Julia Cooper, Fannie Jackson Coppin, Sarah J. Early, Hallie Quinn Brown, Fannie Barrier Williams –, molte delle quali sarebbero state impegnate sul tema della discriminazione razziale e dei diritti delle donne per il resto della loro vita. E come non ricordare l’impegno istancabile di Ida Wells contro la pratica del linciaggio e quello di Mary McLeod Bethune – responsabile del Black Cabinet creato da Franklyn Delano Roosevelt – per l’istruzione e l’empowerment delle donne afroamericane?

Il coinvolgimento delle donne nere nel lavoro di comunità, nei movimenti e in ambito più strettamente politico non si è mai fermato. Shirley Chisholm è stata la prima rappresentante nera al Congresso nelle fila del partito Democratico nel 1968 e Carol Moseley Braun è stata eletta al Senato oltre vent’anni più tardi. Dopo di lei la seconda senatrice di colore sarebbe stata proprio Kamala Harris nel 2016. 

Negli ultimi anni, inoltre, le donne nere sono divenute una forza politica organizzativa centrale per il Partito democratico, svolgendo un ruolo di punta nelle elezione di midterm del 2018 sulla base di una campagna elettorale centrata su diritti di cittadinanza per gli immigrati, sul diritto alla salute, sulla denuncia delle molestie sessuali e sul sostegno ad una legge contro le armi. Grazie all’aggregazione in strutture come Black Voters Matter, le donne nere hanno riportato vittorie per i democratici in Stati apparentemente impossibili come l’Alabama. Sono state le donne afroamericane a costituire fin dall’inizio la spina dorsale del Movimento Black Lives Matter ed a svolgere un ruolo di primo piano nell’organizzazione della Women’s March del gennaio 2017.

Quel 21 gennaio fu proprio Kamala Harris a tenere un discorso intenso e coinvolgente in cui si insisteva sull’urgenza di rendere prioritari gli women’s issues nelle politiche del paese, e si lanciava al tempo stesso un forte messaggio di empowerment alle donne.

La sua storia di vita del resto ne è esempio. Nata e cresciuta a Berkeley, laureata alla Howard University di Washinton, la sua scelta di divenire procuratrice fu legata al contrasto ai crimini come quelli compiuti dal Ku Klux Klan e alla volontà di cambiare il sistema giudiziario dall’interno. Come procuratrice distrettuale di San Francisco e poi procuratrice generaledella California ha promosso politiche progressiste sui temi dell’ambiente e dei diritti umani. Mentre lei stessa si è definita “smart on crime” in un libro autobiografico del 2009, l’elettorato progressista del Partito Democratico le rimprovera l’intransigenza dimostrata nei confronti dell’abbandono scolastico soprattutto nelle comunità nere e lo scarso impegno nell’affrontare i casi di cattiva condotta della polizia, definendola “top-cop”. Posizioni che non tengono in sufficiente conto il cambiamento di linea di Harris in seguito all’uccisione dell’afroamericano Michel Brown per mano della polizia a Ferguson, Missouri nel 2014, così come l’efficacia di alcune delle sue politiche e le sue denunce nei confronti del’iniquità del sistema giudiziario statunitense. Negli ultimi mesi Harris si è schierata apertamente con Black Lives Matter – un movimento che si è ampliato moltissimo in seguito all’uccisione di George Floyd da parte della polizia, mobilitando milioni di persone in tutti gli Stati Uniti -, chiedendo ad alta voce una riforma della polizia e dei suoi metodi di contrasto al crimine, a cominciare dal bando del “racial profiling”.

Sebbene molti gruppi femministi e pro-choice sostengano che la sua candidatura è un fatto storico di grande rilievo, alcune leader afroamericane – a partire da Angela Davis – la ritengono troppo conservatrice e chiedono a lei e a Joe Biden di mettere in campo un’agenda più progressista che ponga al centro giustizia sociale e razziale e uguaglianza di genere. Le donne, del resto, nell’epoca della pandemia si sono fatte carico più degli uomini, sia nel privato che in ambito professionale, di bambini, anziani e ammalati e più degli uomini hanno perso il lavoro nel quadro della durissima recessione economica. Di questi temi Kamala Harris si è fatta portavoce in Senato proponendo aiuti economici alle famiglie e mettendo in luce l’esistenza di forti disparità razziali correlate alla diffusione del coronavirus.  

Proprio per la sua attenzione a queste disparità Harris è in grado di proporre un nuovo stile di leadership “trasformativa” a partire dal ruolo che le donne di colore hanno svolto storicamente nell’ambito delle loro comunità. Per essere una leader “trasformativa” Harris deve essere una partner reale per Joe Biden superando i limiti di visibilità a cui i vice-presidenti sono confinati in campagna elettorale e dopo l’eventuale vittoria, mentre in politica estera l’identità stessa di Harris può costituire un Soft-Power Boon for America’s Global Image, come ha scritto la rivista “Foreign Policy” pochi giorni fa.

Un ruolo centrale di Harris in campagna elettorale può rafforzare il potere di voto delle donne statunitensi – determinante secondo l’Institute for Women’s Policy Research -, attribuendo loro una influenza reale sulle politiche governative che produca anche una ridefinzione duratura della leadership politica. Le organizzazioni Black Lives Matter, Color of Change e la più recente Higher Heights stanno organizzando la candidatura delle donne nere per le prossime elezioni (se ne prevedono circa 600) e la costruzione di un potere politico collettivo che prescinda dalle singole personalità. Il loro impegno potrebbe cambiare gli equilibri di genere in Congresso, dove su 535 membri oggi le donne sono 127, di cui 48 di colore. Nella sua prefazione al rapporto di Higher Heights, The Chisholm Effect: Black Women in American Politics in 2018, Kamala Harris ha scritto che le donne nere sono centrali nella strategia elettorale e che il loro potenziale di crescita è immenso dal momento che costituiscono il 7.3% della popolazione USA e rappresentano meno del 1% degli eletti. A rafforzare questa posizione è Duchess Harris (autore di Black Feminist Politics. From Kennedy to Trump) quando sostiene che grazie ai movimenti Black Girl Magic e Black Lives Matter la politica dell’ultimo decennio è stata definita dalla strategia politica trasformativa del femminismo nero. Se è vero che Harris non è identificata pienamente con quest’ultimo, l’uguaglianza di genere e i diritti riproduttivi sono al centro della sua politica di Senatrice dal momento della sua elezione. Le afroamericane che avrebbero potuto essere scelte per la stessa posizione – Susan Rice e Karen Bass – non hanno devoluto lo stesso impegno sugli women’s issues.

Nel primo giorno della Convention democratica Michelle Obama ha detto, rivolgendosi ai cittadini americani: “We have got to reassert our place in American history”. Kamala Harris può contribuire a farlo anche attraverso la valorizzazione all’esperienza delle donne di colore nella storia americana, rendendo “universale” il loro discorso sulla giustizia sociale e portando avanti una politica che metta al centro il tema dell’intersezionalità sottraendolo alle sole definizioni teoriche.

 “The colored woman feels that woman’s cause is one and universal”, disse Julia Cooper nel corso del suo discorso alla esposizione colombiana del 1893. Se Kamala Harris riuscirà a rendere reale questo messaggio, le elezioni 2020, a 100 anni dalla conquista del voto, potranno essere decise dalle donne statunitensi.

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