Tre possibili “vittorie” per la guerra in Ucraina

Articolo di Gabriele Natalizia pubblicato su Centro Studi Geopolitica.info

A un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, in Occidente stiamo assistendo al vivace dibattito tra quanti ritengono sia necessario sostenere Kiev con tutti i mezzi possibili e quanti, invece, pensano che una reale soluzione possa giungere solo ed esclusivamente attraverso i canali paralleli della diplomazia.

I due campi, tuttavia, si dividono rispetto a un interrogativo – quello sulle “modalità” per arrivare alla conclusione del conflitto – cui ha senso cimentarsi solo dopo averne risolto un altro – quello sugli obiettivi da raggiungere. In altre parole, è necessario che il fronte mobilitatosi contro l’aggressione russa giunga a una soluzione più o meno condivisa su cosa intenda per “vittoria” e – di conseguenza – cosa intenda per “sconfitta”.

Prima di discutere su come ottenere “una” – generica – pace, infatti, dovremmo schiarirci le idee su qual è “la” pace a cui aspiriamo. Dobbiamo, pertanto, elaborare una “teoria della vittoria”: assegnare le priorità alle diverse forme della pace che potrebbero essere raggiunte. Questa non può essere ridotta al tacere delle armi hic et nunc, ma deve offrire alle popolazioni dei territori contesi una prospettiva di sicurezza di medio-lungo termine. Altrimenti il rischio che corriamo è quello di accettare una semplice tregua – a là “conflitto congelato” – o una pace altamente instabile – a là “periodo interbellico”. I pericoli di questi tipi di cessazione della violenza, d’altronde, sono ben noti e, non a caso, sono stati implicitamente al centro del recente discorso tenuto alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco dal segretario di Stato Antony Blinken, che ha parlato chiaramente della necessità di ottenere una durable peace.

Al di là delle dichiarazioni di rito a sostegno del governo di Volodymyr Zelensky e degli sforzi del popolo ucraino, tuttavia, le posizioni sull’essenza della vittoria all’interno della NATO sono ancora molto eterogenee. Rispecchiano, peraltro, il dibattito sul futuro dell’Alleanza che aveva preso forma quando ancora il 24 febbraio 2022 e le tragedie che ne sono seguite non erano all’orizzonte. Gli Stati dell’Europa orientale, che prima dello scoppio della guerra chiedevano all’Alleanza Atlantica di continuare a occuparsi del compito di sempre – deterrenza e difesa – contro il nemico di sempre – Mosca – sono quelli che oggi si distinguono per una posizione “massimalista”. Non vogliono solo che le forze della Federazione Russa siano respinte dall’Ucraina, ma auspicano l’ingresso di Kiev nella NATO e la caduta del regime russo come conseguenza del mix tra debacle militare e sanzioni economiche.

Se sul primo termine del concetto di vittoria “alla polacca” gli altri alleati possono – parzialmente – concordare, sembrano considerare il secondo come l’oggetto di un possibile compromesso. Sebbene non possano dirlo esplicitamente, invece, il terzo è ai loro occhi un vero e proprio worst-case scenario. I costi – umani ed economici – di un cambio di regime nel Paese più grande del mondo, con circa 140 milioni di abitanti, che congiunge l’Europa con l’Asia e, soprattutto, dotato del più grande arsenale nucleare esistente, potrebbero eccedere di gran lunga i suoi benefici. Si ricordi che persino nel 1991 la Casa Bianca fu molto fredda su questa opzione. Solo tre settimane prima del collasso dell’URSS, infatti, il presidente George H.W. Bush suggerì a un’attonita Rada di non confondere la libertà – giusta e auspicabile – con l’indipendenza – foriera di rigurgiti nazionalisti e violenze.

Se prima dello scoppio della guerra le potenze anglosassoni chiedevano un ripensamento dell’alleanza in funzione della Repubblica Popolare Cinese quale nuovo strategic competitor, nella versione global NATO o in quella di una NATO con “proiezione globale”, sul tema della “vittoria” si attestano oggi su una posizione “intermedia”. Questa permetterebbe soprattutto a Washington di ricollocare una parte consistente delle loro risorse verso l’Indo-Pacifico. Gli Stati Uniti, pertanto, chiedono una pace “giusta”, in quanto rispettosa dei principi della Carta dell’ONU, e “durevole”, ossia che metta la Russia nelle condizioni di non nuocere ad altri nei prossimi anni. D’altra parte, anche quanti si sono distinti per le posizioni più hawkish sulla guerra come lo stesso Blinken, non esitano a ribadire che gli Stati Uniti non hanno alcuna strategia per il cambio di regime in Russia. L’auspicio, piuttosto, è che la guerra possa marginalizzare il ruolo di Mosca dalla competizione tra potenze e accelerare l’uscita di scena di Putin dalla scena politica. Verificatesi queste condizioni, la Casa Bianca si attende una normalizzazione delle relazioni con la Federazione Russa – chiunque sia il suo nuovo leader – funzionale a garantirne la terzietà, se non il tacito allineamento con gli Stati Uniti, nella più importante partita in corso con Pechino, sul modello di quanto fatto a parti invertite negli anni Settanta e Ottanta.

I Paesi dell’Europa occidentale, dal canto loro, se prima dello scoppio della guerra proponevano alla NATO di conferire pari dignità alle minacce provenienti dal Fianco est e dal Fianco sud e di attestarsi su un raggio d’azione intermedio, oggi hanno assunto una posizione “minimalista” – seppur con sfumature diverse – in tema di “vittoria”. Su questo solco si collocano, infatti, le posizioni sia della Francia che dell’Italia, le quali però tradiscono riflessioni strategiche diverse sul post-guerra. La linea di Parigi, tradizionalmente alfiere di un’autonomia strategica europea a tutto tondo, è quella di raggiungere un nuovo assetto di pace che goda anche del placet da parte di Mosca che, pertanto, come spiegato dal presidente Emmanuel Macron «non va umiliata». Al contrario la posizione italiana rispecchia una diversa accezione di autonomia strategica, che considera gli Stati Uniti come un elemento imprescindibile per la sicurezza in Europa ed è stata più volte spiegata dal generale Claudio Graziano, secondo cui questa significa «essere in grado di operare da soli se necessario, sempre con i partner se possibile». Secondo Roma, pertanto, l’unica garanzia contro il revisionismo russo resta il deterrente costituito dalle forze convenzionali e non convenzionali americane presenti in Europa, che in tema di “vittoria” le permettono di porre maggiormente l’accento sulle necessità di Kiev, anziché su quelle di Mosca. Non a caso, il presidente del Consiglio Giorgia Meloni durante il suo incontro con Zelensky ha promesso che «l’Italia darà ogni possibile assistenza perché si creino le condizioni di un negoziato, ma fino ad allora offrirà [all’Ucraina, nda] ogni genere di supporto militare, finanziario, civile. Chi sostiene anche militarmente l’Ucraina è chi lavora per la pace».

Solo una volta che gli alleati concorderanno – o quasi – su una delle declinazioni di “vittoria” si potrà risolvere il dilemma sulle modalità della pace nonché rispondere alle tante altre domande ad esso collegate sulle quali l’opinione pubblica occidentale si arrovella da mesi. Sono efficaci le sanzioni? Che tipo di sistemi di arma dobbiamo fornire alle forze armate ucraine? Quanto può realmente la diplomazia? Quali rinunce si potrebbero chiedere a Kiev e quali a Mosca? I responsabili dei crimini di guerra andranno perseguiti nella fase post-bellica? Se non siamo convinti di quali sono i nostri obiettivi si corre il rischio di fornire risposte incoerenti tra loro e vanificare i sacrifici compiuti negli ultimi dodici mesi.

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